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IL CONFLITTO: MAPPA PER UNA GESTIONE COSTRUTTIVA

(testo con licenza CC BY-SA)

Legenda: il testo è scritto provando a rispettare la parità di genere. La forma di linguaggio che ho voluto sperimentare consiste nell’uso, all’incirca alternato, del genere femminile per includere anche quello maschile – per esempio restare ‘calme’ include anche ‘calmi’, ‘le’ partecipanti comprende ‘i’ partecipanti, ecc – così il femminile viene ad assumere qui lo stesso significato e valore che la lingua italiana attribuisce di norma al maschile. Nei rari casi in cui serve precisare il genere, l’iniziale della parola è scritta in maiuscolo – di questo trovi un esempio a seguire. Mi auguro che l’eventuale spaesamento dovuto all’impiego scorretto di alcune regole grammaticali per cercare di correggere lo scorretto carattere maschilista della nostra lingua ‘madre’ (non suona ironico?), diventi occasione per tenere viva l’attenzione sugli effetti sociali assai negativi della dominante cultura maschilista, che opprime non solo le donne, ma anche il femminile negli Uomini – e con ciò gli Uomini stessi.

 

1. RICONOSCERE IL CONFLITTO

“Tra stimolo e risposta, c’è uno spazio. In quello spazio c’è il nostro potere di scegliere la nostra risposta. Nella nostra risposta si trovano la nostra crescita e la nostra libertà “. Victor Frankl

Se si vuole gestire un conflitto in maniera costruttiva, nonviolenta, ecologica (qui li uso come sinonimi), bisogna anzitutto riconoscerlo.

Un conto è vivere l’esperienza del conflitto, un conto è riconoscere consapevolmente di star vivendo l’esperienza mentre accade. Questo riconoscere, che di solito comporta il fare una deliberata pausa, permette di scegliere come rispondere, altrimenti nel conflitto si va col pilota automatico.

Dunque, tu come riconosci ciò che chiami conflitto? In base a cosa puoi affermare questo è un conflitto e quello non lo è? Cosa deve accadere per trasformare una situazione da non conflittuale a conflittuale? Che ingredienti ci devono essere nel campo dell’esperienza affinché tu la riconosca come conflittuale?

Nel cercare di rispondere a queste domande sono giunto alla sottostante definizione-mappa di conflitto. Formulata nel 1996, in occasione della progettazione del mio primo ‘laboratorio di ricerca e formazione sulla gestione nonviolenta dei conflitti’, ha avuto un certo successo e ogni tanto la trovo citata.

Il Conflitto è uno stato della Relazione

caratterizzato dalla presenza di un Problema

che provoca Disagio

 

2. LA MAPPA

Il linguaggio è un’azione potente: struttura il modo in cui vediamo il mondo e di conseguenza come ci rapportiamo alla realtà che pensiamo e crediamo di avere di fronte.

I concetti che adoperiamo sono una simbolizzazione di ciò che chiamiamo realtà, e qualcuno ha giustamente osservato che il rapporto tra concetti e realtà è analogo a quello che intercorre tra una mappa e il relativo territorio. Perciò conviene costruirsi buone mappe e aggiornarle spesso – e ovviamente non confondere la mappa col territorio.

Prima parola chiave: Relazione

Il conflitto è sempre legato ad una determinata relazione: con un’amica o una nemica, con gli eventi o con sé stessi.

Possiamo utilmente distinguere due dimensioni delle relazioni e dell’esistenza in generale: una interna o intra-sistema (intrapersonale, intragruppo, intrastatale, ecc), e una esterna o inter-sistema (interpersonale, intergruppale, interstatale, ecc). Il loro inseparabile insieme costituisce l’Unità Inside/Out.

L’esperienza del conflitto – ogni esperienza – si gioca sempre su entrambe le dimensioni, ma con una differenza sostanziale: in quella interiore abbiamo un potere assai maggiore rispetto all’altra.

Seconda parola chiave: Problema

Per problema qui s’intende qualcosa (evento o comportamento) che in una relazione viene considerato inaccettabile da almeno una delle parti. Può essere una diversità di interessi, bisogni, opinioni, valori, attese, gusti, ecc, che viene percepita e valutata come opposizione, contrasto, incompatibilità.

Da tale prospettiva i problemi s’incontrano costantemente. Piccoli o grandi che siano costituiscono la materia prima dell’agire quotidiano, sempre teso a trasformare situazioni, contesti, relazioni – e anche le persone – per renderle accettabili, in linea con le proprie attese, bisogni, valori, aspirazioni, desideri, ecc. Karl Popper ha scritto “Tutta la vita è risolvere problemi”.

Possiamo però notare che di fronte ad un problema a volte si prova irritazione, paura, disgusto, mentre in altri casi si resta calme, curiose, ben disposte. Questa fondamentale differenza di atteggiamento mentale ed emotivo verso un problema introduce l’ultima parola chiave della mappa – quella che fa la differenza.

Terza parola chiave: Disagio

Disagio fisico e disagio psicologico non sono la stessa cosa. Si può avere mal di testa o l’influenza ed essere di buon umore, come si può star bene fisicamente eppure sentirsi depressi o angosciate, al punto da prendere un farmaco o andare in terapia.

Ovviamente anche il disagio di natura psicologica si percepisce nel corpo: la paura la riconosco per il caratteristico insieme di sensazioni che è ben diverso da ciò che sento quando sono arrabbiata o scoraggiato, oppure tranquilla o allegro.

Dunque è il disagio di natura psicologica ciò che nella nostra mappa caratterizza e determina l’insorgenza del conflitto – o, in altri termini, ciò che trasforma un ‘semplice’ problema in un conflitto, qualcosa di più complesso. D’ora in poi con disagio sottintendo questo, altrimenti lo preciso.

 

3. IL CONFLITTO: MOLTO PIÙ DI UN PROBLEMA

Se ci si ferma all’idea-mappa di conflitto come semplice presenza di un problema (cioè contrasto di interessi, valori, ecc), non si mette in chiara luce l’aspetto cruciale dell’esperienza del conflitto: nel conflitto si sta male.

Cogliere la differenza tra problema e conflitto è fondamentale perché la componente disagio complessifica parecchio l’esperienza conflittuale, e di conseguenza complessifica la sua costruttiva gestione.

Ogni problema ha la sua natura, e per trattarlo adeguatamente spesso serve un approccio interdisciplinare; ma per quanto bravi siano gli esperti del ‘problema’ non potranno mai risolvere il conflitto da soli, a meno che non sappiano prendersi adeguatamente cura anche della componente disagio.

Concentrarsi solo sul problema per gestire una situazione conflittuale è una semplificazione dagli effetti distruttivi. Per analogia è come trattare solo i sintomi di una malattia e non le cause. Certamente ha senso curare i sintomi, specialmente quando sono acuti, ma senza occuparsi adeguatamente delle cause, la salute col tempo tende a peggiorare.

Infatti la presenza del disagio (rabbia, paura, senso di impotenza, senso di colpa, frustrazione, ecc) influisce direttamente sul potenziale di violenza presente in ogni situazione conflittuale. Il conflitto costituisce il terreno ottimale su cui il seme della violenza può attecchire e germogliare.

È vero che qualche volta risolvendo il disagio scompare anche il problema, così come a volte eliminando il problema scompare pure il disagio. Ma non è la stessa cosa, perché le cause all’origine del disagio sono diverse dalle cause all’origine dei problemi.

La gestione costruttiva del conflitto comporta da un lato la gestione ecologica del problema, che richiede un certo tipo di competenze, e dall’altro la gestione sana del disagio, che richiede altre competenze.

Conflitto e violenza non sono affatto sinonimi

Violenza e conflitto non sono sinonimi, così come non lo sono guerra e conflitto. La guerra e la violenza sono comportamenti, sono modi di gestire il confitto.

Il conflitto invece è un vissuto. E in quanto vissuto è un sintomo fisiologico: segnala che nel sistema (individuo, gruppo, organizzazione, società – d’ora in avanti con ‘sistema’ sottinendo questo) ci sono bisogni insoddisfatti che implicano un cambiamento della condizione presente per ripristinare l’equilibrio, il benessere, la funzionalità del sistema stesso. Questo processo vitale implica naturalmente il conflitto. In ogni forma di organizzazione convivono tendenze opposte, assertive e integrative, conservative e trasformative.

Invece il conflitto si tende grossolanamente ad associare al comportamento (più o meno) violento, e ciò ostacola la comprensione e la costruttiva gestione del fenomeno.

Certamente anche il comportamento è un sintomo, ma di natura diversa: ci informa sul modo in cui il sistema gestisce il conflitto, quindi sulle sue premesse mentali e culturali. Informazioni essenziali queste per una sana gestione dei conflitti, ma non sufficienti.

 

4. COME USARE LA MAPPA

È il corpo che segnala la presenza del conflitto

La sottile o evidente tensione corporea di disagio è il campanello che segnala chiaramente e rapidamente la presenza del conflitto.

Per risvegliarsi nell’esperienza del conflitto basta porsi una domanda e lasciare che sia il corpo a rispondere: “come mi sento di fronte a questa situazione? Cosa provo quando penso a quell’evento accaduto o a quella persona che dovrò incontrare?” Notare che le domande non iniziano con “cosa penso…”.

Quando il corpo viene direttamente interpellato, cioè gli si rivolge un certo tipo di attenzione, risponde tramite l’infinita gamma di sensazioni di cui è capace. Le sensazioni sono la porta di accesso alla cosiddetta conoscenza implicita o saggezza del corpo, che include i bisogni insoddisfatti e il senso dell’esperienza vissuta, la nostra storia e le soluzioni giuste per noi nelle diverse circostanze.

Il rapporto tra disagio e problema: causa e stimolo

Il rapporto tra disagio e problema è centrale nella gestione ecologica dei conflitti. Una famosa similitudine illumina questo rapporto. Se seminiamo grano, non c’è dubbio che se qualcosa nascerà sarà grano. Diciamo allora che la causa primaria, quella che genera la pianta, risiede nel seme, mentre la causa secondaria, quella che provoca la crescita, risiede nel complesso dei fattori esterni o ambientali che consentono al seme di realizzare la sua potenzialità e di svilupparsi in pianta. Così la tensione emotiva che provo (per esempio rabbia) per il comportamento di qualcuna, ha come causa primaria il seme della rabbia già presente in me, e come causa secondaria il problema, cioè il comportamento dell’altro, che come acqua annaffia e stimola il seme. Per inciso, la pianta della rabbia è tossica e può uccidere, ma anche curare, come molte sostanze in natura che sono la base di farmaci salvavita.

Mi sento a disagio perché ‘tu’ fai così… oppure perché ‘io’ faccio così?

Quando si crede che la causa primaria di ciò che sento sia esterna, che sia l’altro, diventa naturale e giustificato trattare gli altri in modo aggressivo o vendicativo – o per contro sentirsi in colpa ritenendo di essere la causa del loro malessere.

Se però, grazie alla consapevolezza, mi ricordo che potrei riformulare il “mi sto arrabbiando perché tu fai così” con “quando tu fai così io mi arrabbio perché io faccio così dentro me (cioè io penso-credo-sento certe cose)”, che succede?

Succede che il pilota automatico per un attimo s’inceppa e si apre quello spazio di libertà su cui punta il dito Victor Franckl – uno che il conflitto lo conosceva bene essendo sopravvissuto ad Auschwitz e poi tornato al mondo con ancor più fiducia verso l’umanità. L‘entrata in questo spazio innesca la risposta mediata dalla consapevolezza e segna l’inizio della gestione costruttiva del conflitto.

 

5. GESTIRE, TRASFORMARE, RISOLVERE I CONFLITTI IN MODO COSTRUTTIVO

“Quasi tutti gli uomini muoiono per i rimedi che usano più che per le loro malattie.” Moliere

Dunque siamo noi i primi responsabili di ciò che pensiamo e sentiamo, non solo di ciò che facciamo. Tale responsabilità ci riconnette al nostro potere. Questo è il fondamento dell’empowerment.

Ma di quale ‘forma’ di potere stiamo parlando?

Il potere che fonda la gestione nonviolenta dei conflitti è un ‘potere con’ e non un ‘potere su’. Per comprendere il significato di questa affermazione è necessario prestare attenzione al modo in cui esercitiamo il potere dentro e fuori di noi.

Come ci si rapporta al vissuto di disagio, malessere, sofferenza che si porta dentro? Come ci rapportiamo alla rabbia, al senso di impotenza, di colpa, di inadeguatezza, di fragilità, di vuoto, di fallimento, alle paure e angosce che, sotto sotto, tutte proviamo?

Come ci rapportiamo significa come ‘gestiamo’ certe emozioni, sentimenti, sensazioni, pensieri, vissuti nel momento stesso in cui sono presenti nel campo della coscienza.

La risposta a tali domande richiede di arricchire la nostra mappa con altre parole chiave.

Gestire il conflitto

“Non si può non comunicare.” Primo assioma della comunicazione (scuola di Palo Alto)

Gestire significa agire, fare qualcosa in vista di un fine. La scienza della comunicazione insegna che dal punto di vista pragmatico (cioè degli effetti sulle relazioni) la comunicazione coincide col comportamento, quindi con l’agire, col fare. Quindi possiamo dire che “gestire è comunicare” e “comunicare è gestire”, e di conseguenza possiamo affermare che la gestione dei conflitti coincide col modo di comunicare del sistema.

E siccome è impossibile non comunicare, ne consegue anche che è impossibile non gestire i conflitti che ci coinvolgono. Affermazioni come “quella non comunica”, o “io i conflitti non li gestisco”, ostacolano la necessaria comprensione dell’esperienza conflittuale.

Il concetto di gestione qui proposto non implica però l’idea di controllo o potere assoluti.

Di fatto, tramite la mia comunicazione/gestione io esercito sempre una certa influenza nelle e sulle relazioni di cui sono parte. E in forza di questo essere parte, di questo esserci-partecipare, posso orientare la trasformazione del conflitto verso gli obiettivi e le finalità che desidero, il cui raggiungimento però non è mai completamente nelle mie mani. 

Trasformare il conflitto

“Cambia, todo cambia…”. Mercedes Sosa (Julio Numhauser)

Tutto cambia. Non è possibile impedire la trasformazione delle cose – di un conflitto, una relazione, una persona, una società, della natura, di noi stesse…

E d’altra parte abbiamo sempre un certo potere, a volte scarso, altre volte grande, di orientare/influenzare il processo di trasformazione verso finalità desiderate. Ma mai un potere assoluto. Questo lo sperimentiamo in continuazione. Tra poco mi alzerò e mangerò qualcosa. Forse mi sbuccerò un’arancia e sguscerò qualche noce. È nelle mie ordinarie, banali possibilità. Sempre che non mi colpisca un ictus – e so di cosa parlo.

In una relazione, io, per il semplice fatto di esserci, e con ciò permettere alla relazione stessa di esistere, necessariamente esercito su di essa una certa influenza, e quindi in qualche misura sono sempre nella condizione di poter orientare la direzione del cambiamento verso una meta piuttosto che verso altre. Io sono (come lo è l’altra) un elemento ineliminabile e irriducibile della relazione, e se cambio io, la relazione cambia – quindi anche l’altra cambia.

Che poi tale cambiamento sia sufficiente per ottenere ciò che voglio, questo dipende da tanti fattori. Tra questi fattori ce n’è uno particolarmente importante, che ci conduce al concetto di risoluzione del conflitto: i bisogni.

Risolvere il conflitto

In genere un conflitto si dice risolto quando le condizioni iniziali che ne determinavano l’insorgenza (bisogni insoddisfatti) cambiano e la situazione diviene per il sistema accettabile (soddisfazione dei bisogni).

I bisogni sono spinte vitali complesse che implicano sempre una dimensione di senso. Un bisogno vitale come l’alimentazione, o la conservazione della vita stessa, possono essere sacrificati in nome di un’ideale, e il senso della causa per cui si lotta e si muore è creato dal sistema stesso.

La costruzione del significato dell’esperienza, e del senso stesso della propria esistenza, è un processo fondamentale per il mantenimento della salute o dell’equilibrio di un sistema. Per questo il tema dei valori è centrale nella gestione dei conflitti.

Per raggiungere il proprio fine si può rubare, vendersi o tradire, usare la menzogna o il veleno, oppure no e rinunciare al fine per un fine considerato superiore. Addirittura si può scegliere di farsi uccidere o lasciarsi morire piuttosto che uccidere altri esseri umani.

Ogni scelta implica dunque una dimensione valoriale, di senso. Parafrasando il primo assioma della comunicazione umana si può dire che è impossibile per un sistema non avere valori, non avere una visione del mondo, un proprio codice di comportamento. Pertanto la gestione dei conflitti implica sempre una dimensione valoriale – quale essa sia – e questa dimensione si esprime nel modo in cui si gestisce il conflitto. Più precisamente, il modo in cui si gestisce il conflitto soddisfa essenzialmente i bisogni di senso del sistema.

Eccoci allora all’ultimo concetto chiave della mappa: cosa qualifica la cosiddetta modalità costruttiva, ecologica, nonviolenta di gestione dei conflitti? 

La modalità (costruttiva, nonviolenta, ecologica…) di gestione dei conflitti

Sappiamo che il fine informa i mezzi e i mezzi contengono il fine. Per esempio l’accordo tra le parti al termine di un processo di gestione del conflitto, magari sancito con sorridente stretta di mani, potrebbe essere frutto di manipolazione di fatti, dati e notizie che uno dei soggetti coinvolti attua a scapito degli altri (come avviene nelle truffe); oppure la conseguenza di minacce, ricatti, violenza fisica, a cui una delle parti cede per paura di perdere la vita, l’integrità fisica o altro che ritiene essenziale. Ma potrebbe anche essere un accordo leale tra le parti in causa, che hanno sì trovato il modo per soddisfare i loro interessi e risolvere il conflitto, però a danno di terzi e/o del più ampio contesto sociale o ambientale di cui sono parte.

Aldo Capitini, il più importante intellettuale italiano ‘persuaso della nonviolenza’ (come lui ci teneva a dire), rimarcava che le tecniche sono secondarie: a monte c’è sempre una scelta di ordine morale, valoriale. Compiuta la scelta di principio, che indica il fine a cui si punta, i mezzi si trovano, le tecniche vengono di conseguenza, si inventano. Non esistono scelte ‘puramente’ tecniche: la scelta implica sempre un senso che ha valore più di altri. E le ragioni del senso, che muovono tanto la mano del poeta o del banchiere quanto quella della scienziata o della missionaria, affondano le radici nella profondità dell’animo o della psiche.

“Il cuore ha le sue ragioni, che la ragione non conosce”, diceva Pascal, ed è vero, se si rimane nella cornice culturale che concepisce la ragione come fredda indagatrice di quelle misteriose ragioni. Ma oggi sappiamo, sempre meglio, che il cuore ama far conoscere alla ragione le sue ragioni, a condizione che essa sappia ascoltarlo in un certo modo.

La modalità nonviolenta di gestione dei conflitti si fonda su certi principi o valori e di conseguenza si orienta verso procedure (i mezzi) e soluzioni (obiettivi) coerenti con quei valori. Quali sono questi valori?

I tuoi quali sono? In che modo eserciti il tuo potere nella relazione con gli altri e con te stessa quando le cose non sono come ti piacciono, non sono come ritieni buono e giusto che debbano essere? La mia risposta la trovi nella pagina dedicata al Metodo del Consenso e in quella Che cos’è il Focusing.

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